La Quadara in Calabria, tradizione o rito?

di Giorgio Durante,  Presidente Accademia delle Tradizioni enogastronomiche di Calabria

Tratto dal Libro Salumi e tradizioni di Calabria

di Giorgio Durante  –  Presidente dell’Accademia

La tradizione, per meglio dire il rito della Quadara o meglio ancora della Frittola in Calabria, è legata alla tradizionale trasformazione domestica del maiale.

Intorno all’uccisione e alla lavorazione delle sue carni ruotano usanze che si differenziano da paese a paese e ogni comunità difende fieramente le proprie peculiarità.

La centralità del maiale nella tradizione contadina calabrese si riassume nel detto, Cu si marita è cuntentu nu jorno, cu ammazza u porcu e cuntentu tuttu l’annu”.

Tradizionalmente la lavorazione del maiale prende circa tre giorni di lavoro, e tutta la famiglia è coinvolta da grandi a piccini.

Lavoro e allegria, in una vera e propria festa con numerosi contenuti enogastronomici tra l’altro concentrati temporalmente in tre o quattro giorni.

Intorno a questo vero e proprio evento sono nate molte tradizioni e moltissimi riti, ma quello più conviviale è proprio il giorno della quadara, che coincide con l’ultima giornata della lavorazione del maiale.

Tuttu ‘u munnu è frittuli, così recita un antico detto calabrese, per indicare chi è in un particolare stato di grazia, ma anche un monito per chi pensa di potersela spassare per sempre come nel giorno delle frittole.

Un giorno lungo e faticoso, che segna il momento più alto del convivio contadino, quello della quadara, che si celebra come una vera e propria liturgia fatta di tempi e atti scanditi in circa 24 ore.

In realtà la Quadara, o la Caddara, a seconda delle zone, consiste nell’utilizzo del quinto quarto del maiale, proprio perché Du Porcu nu si jettanente”, ma proprio niente: lardi, grassi, organi non altrimenti utilizzabili, ossa, cotiche, ecc, ecc.

La cosa nasceva, in verità, per realizzare la preziosa sugna, un tempo molto utilizzata in cucina in sostituzione del più nobile olio di oliva: e proprio dai lardi si parte.

Infatti, i lardi rimasti dalle lavorazioni fatte nei giorni precedenti, tagliuzzati a striscioline e quadrotti, vengono messi a bagno in apposite conche dalla sera precedente, in acqua fredda, così da poter detergere e depurare i lardi dalle macchioline di sangue e da altre impurità.

Al mattino, di buon’ora, e in ogni caso prima dell’alba, la caldaia con l’acqua viene posizionata sul “tripido” grande posto nel camino a fiamma viva, aggiungendo i lardelli risciacquati e completando con acqua fino a ricoprire il tutto.

La quadara tradizionale è un pentolone grande in rame a fondo concavo, di circa un metro di diametro, che riesce a contenere anche 100 litri di liquidi.

Spesso veniva effettuata la stagnatura della quadara per evitare che l’ossido a cui è soggetto il rame potesse rendere dannoso il contenuto.

Si avvia così una lenta cottura, che dura da sei a otto ore, e questa modalità di cottura otterrà l’effetto di sciogliere tutti i grassi dei lardelli e il rilascio dei magretti.

Raccontata così la cosa sembra semplice da fare, ma in realtà non lo è affatto perché questo lento andare viene interrotto e inframmezzato da una serie di azioni preparatorie che portano come risultato la sugna e, soprattutto, quanto rende unico il pranzo tipico del giorno denominato frittuliata.

Durante la lenta cottura due aspetti sono importanti: la gestione della fiamma del caminetto, né troppo alta né troppo bassa, e la pazienza dell’addetto, “U mastu da caddara”, che di tanto in tanto deve rimestare il contenuto, con una cucchiaia rigorosamente in legno che supera il metro di lunghezza, raggiungendo il fondo del recipiente per non far appiccicare i lardelli in cottura.

È lui che scandisce i tempi di immersione delle altre parti del maiale, nel liquido in bollitura.

Come accennato la finalità del processo di fusione dei lardi è quella di realizzare lo strutto: la sugna.

La verità e che, fin dall’antichità, con la scusa della sugna, ‘U mastu da Caddara si è inventato tutto un mondo di prelibatezze utilizzando il quinto-quarto del maiale.

In primis, le parti magre piccolissime che aderiscono al lardo e che durante la cottura vanno a depositarsi a fuoco spento sul fondo della quadara, creando quelli che sono simili ai cosiddetti cicoli e che in altre parti della Calabria si chiamano “Frisuli”, “Scarafuogli”, assumendo anche altre denominazioni come curcuci, risimogli, sprinzuli e altre ancora.

Il loro utilizzo è diversificato e va dall’uso come condimento nelle verdure, alla spalmatura sulle bruschette, anche se l’utilizzo più indicato che esalta questa preparazione è l’uovo fritto in padella, denominato “l’uovu curi Frisuli”.

Questi, un tempo molto più usati, si conservavano fino alla primavera, ed essendo un cibo molto calorico veniva consumato soprattutto durante la stagione invernale.

Era uso, nell’era pre-frigo, conservare i scarafuagli all’interno della vescica del maiale ben pulita, gonfiata immediatamente al prelievo con una cannuccia naturale per evitare l’afflosciarsi, altrimenti sarebbe diventata inutilizzabile, per poi venire riempita con i frisuli (alcune volte anche con la sugna) con un imbuto quando questi sono nella fase liquida.

Appena raccolto, il sedimento della quadara è abbastanza grasso e prima del consumo è uso sgrassarli, riscaldandoli in modo che viene a separarsi la parte più magra dal grasso: quindi, a seconda del gusto personale, assumono delle consistenze diverse.

Straordinaria è anche la zuppa fatta con dei tocchetti di pane, resi croccanti all’interno della padella, che assorbono il condimento impregnandoli.

Prima, però, di arrivare ai scarafuagli, ci sono molte altre cose da fare: anzi, proprio i scarafuagli scandiscono la fase ultima dello smontaggio della quadara.

È sempre il cuciniere, quasi sempre un uomo di grande esperienza, a gestire la quadara, in quanto questo non era lavoro per donne: ad esse era relegato il compito di preparare le frittole, lavare le ossa da immergere quando uMastu dava un cenno, e pulire i numerosi recipienti resi “nzivati” (untuosi, ndr) dagli ingredienti utilizzati.

Durante tutte queste operazioni, l’acqua calda serviva continuamente ed era prodotta nelle “pignate” di argilla, poste ai margini della fiamma dello stesso camino.

La preparazione delle frittole atteneva proprio ai compiti delle donne, lavoro delicato per via della spelatura delle cotiche che doveva essere perfetta: a tal proposito, si utilizzavano i rasoi a mano libera dei barbieri, perfettamente taglienti.

Le frittole sono strisce di pancetta di circa 5-6 centimetri di larghezza e abbastanza lunghe, circa 30-35 centimetri: quelle più buone appartengono soprattutto alle scrofe e sono quelle che comprendono le ghiandole mammarie.

Le frittole, oltre ad essere consumate nel cosiddetto pranzo della quadara, sono utilizzate successivamente per realizzare dei piatti straordinari come le fave col finocchietto o in abbinamento con i fagioli.

Queste strisce di pancetta vengono legate insieme con dello spago naturale, altrimenti vanno a disperdersi all’interno del quantitativo di grassi sciolti, e vengono immerse nella quadara circa un’ora e mezza prima della conclusione della cottura, quando vengono tirate su.

La gran parte di esse venivano conservate sotto grasso nei tipici recipienti di argilla, definiti in Calabria salaturi o cantari.

Non termina qui la straordinarietà della quadara, perché contemporaneamente alle frittole, in fase di asciugatura, vengono immerse in questo grasso ribollente le ossa che sono state in parte spolpate ma che ancora hanno polpe residuali aderenti.

La maggior parte della carne del maiale, anche quella attaccata alle ossa, è utilizzata per realizzare i triti che vanno insaccati nei budelli per fare i salumi: soprattutto la salsiccia e la soppressata.

È ancora una volta il cuciniere a dare lo stop alla cottura e lo fa solo dopo aver testato l’assenza di acqua, ad asciugatura avvenuta, quando tutto il liquido presente sarà solo grasso sciolto.

Il test di cottura, oltre a farlo utilizzando la vista e l’udito, dove a cambiare è solo il suono del ribollire, si conclude con la verifica finale, che consisteva nell’utilizzare una strisciolina di stoffa che viene immersa nel liquido e poi incendiata alla fiamma: se la fiammella crepitava voleva dire che era ancora presente acqua, se invece ardeva stabilmente la quadara era pronta e non si dava più fuoco.

Nel frattempo, le donne avevano apparecchiato l’ampio tavolo, che doveva accogliere coppe molto capienti con frittole e ossa.

Le frittole, le ossa e altro vengono servite a tavola caldissime, fumanti: è questo il piatto principe del pranzo della quadara.

Di solito le ossa vengono poste in “gavite” al centro della tavola e consumate insieme ad una minestra di verza o altre verdure come la scarola: questo abbinamento tra minestra di cavolo e ossa c’è dove le carni residuali si staccano quasi da sole, essendo cotte e stracotte.

In realtà, tutto il contesto offre al palato sensazioni gustative straordinarie, perché nella quadara finiscono anche spesso i reni, mentre qualcuno mette la lingua e la milza, mentre in altri territori della Calabria, come Pallagorio e Longobucco, immergono nei grassi in cottura anche “U Sacchiettu”, ovvero una sorta di cotechino fatto con carni scelte, con le quali si realizza un trito che viene cucito letteralmente all’interno della cotenna del “Gammuncello” (nel virgolettato le loro denominazioni originali).

Una preparazione molto particolare che non attiene propriamente alla tradizione dei calabresi, ma che risente probabilmente della cultura Arbëreshë per la presenza di diverse comunità albanesi insediatesi in Calabria, subito dopo lo sgretolamento dell’Impero Bizantino.

Infatti, i primi coloni si insediarono nei territori donati da Alfonso d’Aragona, dislocati un po’ in tutto il territorio calabrese, grazie anche all’aiuto di Giorgio Castriota Skanderbeg, loro eroe.

Queste comunità conservano intatte le loro tradizioni e i riti, soprattutto quelli riferiti alla religione, Cattolico Greco-Bizantino: si tratta, insomma, di splendide contaminazioni.

Le frittole e le ossa sono il piatto principe del pranzo che segue la conclusione della cottura della quadara, ma non sono l’unica portata, anzi!

Il pranzo è un susseguirsi di portate grasse, ma anche composte di insalate acetose sgrassanti: le portate di verdure e carne si susseguono vorticosamente, inframezzate da brocche di vigoroso vino spillato direttamente dai “Varrili”, un rosso tipico dei diversi territori che nel cosentino è il risultato della vinificazione di vitigni di Magliocco e di Gaglioppo, che non di rado raggiungevano picchi alcolici di 16 gradi.

L’incedere delle diverse portate, che restano poi a stazionare tutte insieme sulla tavola, consente a tutti di poter declarare il “brindisi”: quelli di successo devono avere la rima baciata, altrimenti sollevano le battute ironiche dei commensali, e man mano che si procede il contesto diviene sempre più allegro e giocondo, senza mai superare i limiti della buona creanza.

La frittuliata è un pranzo ovviamente in deroga o in rotta ad ogni regola di sana alimentazione, una quantità di calorie, fibre, proteine e soprattutto di grassi e alcool difficilmente quantificabili.

Mentre si aspettano le gavite con il contenuto della quadara, si incomincia a servire un ragù fatto con un ricco soffritto di cipolla e con i tagli del maiale residuali, più grassi: soprattutto le carni del collo, l’osso dello sterno e qualche costoletta.

Il vero segreto di questo ragù è la sua cottura lenta, anzi lentissima, che si mette su di buon mattino, andando va avanti borbottando con il coperchio posto a tre quarti per circa tre, quattro ore.

Per questa ragione assume fragranze e sapori straordinari. Ovviamente, come pomodoro, si usano le passate fatte in casa, mentre per quanto riguarda la pasta, di solito, si utilizzano gli ziti spezzati o le penne a candela: il tutto viene cosparso di copioso formaggio pecorino grattugiato o ricotta salata o affumicata, mentre un pezzo di carne dello stesso ragù sormontava la pasta, mai poca.

Il peperoncino non mancava mai con questo tipo di piatto, e se era un “cancarieddu” piccantissimo, meglio.

Seguiva il primo piatto, anche per praticità, così da non dover cambiare piatto, il ragù: in primis la carne, ormai sgrassata nel sugo, qualche costoletta e qualche “tennarune” (tessuti cartilaginei).

Immediatamente dopo arrivano in soccorso antigrasso una serie di insalate che sono sempre presenti sulla tavola come tradizione vuole: l’insalata di arancia, che essendo acidula è un po’ asprina serve appunto a detergere le papille gustative; a questa si accompagna un’insalata di verza finemente tagliuzzata, condita con copioso aceto forte e un filo di extravergine, anche questa con l’intento di sgrassare la bocca.

Erano sempre presenti pure i sott’oli e sott’aceti di tradizione, come melanzane, giardiniera, zucchine ecc.

A tavola non mancavano mai i broccoli di rapa o rape, che sono quell’insieme delle foglie (friarielli) e delle “sponze” che vengono fritte insieme ad uno spicchio di aglio, aggiungendo solo un po’ d’acqua e di extravergine in modo che rimangono morbidi e umidi e non cambiano colore: è usanza friggere nei broccoli di rapa della salsiccia di fegato e qualche pezzetto di salsiccia dolce o piccante, fatta appena il giorno precedente.

La portata successiva è davvero un “must” della cucina di tradizione, un piatto molto particolare: le polpette di cavolo.

In realtà, si tratta della verza appena sbollentata nelle cui foglie si avvolge imprigionandola una polpetta di carne di salsiccia, trito speziato preparato il giorno precedente per insaccare la salsiccia.

Questa polpetta viene avvolta in due o tre foglie di cavolo e viene poi stufata all’interno di una pentola o di un coccio.

Alcuni prediligono questo piatto passandolo anche un attimo al forno onde far rosolare l’esterno.

Questo è davvero un piatto straordinario, inarrivabile da realizzare anche durante tutto l’anno, magari utilizzando triti meno grassi e conditi.

La frittuliata non finisce ancora qui: un’altra portata esagerata è il soffritto, pezzetti di carne residuale con tanto grasso, spezie ed aromi, alloro, origano e peperoncino, il tutto fritto a fuoco molto vivace in padella fino ad essere tutto ben rosolato nel grasso di cottura.

Ovviamente, si serve caldissimo. Ma c’è ancora dell’altro: il fegato, del quale una parte viene utilizzata per fare le salsicce di fegato, mentre un’altra parte viene utilizzata il giorno della quadara.

Il fegato viene tagliato a striscioline non sottilissime e si avvolge nell’omento, che è quella parte conosciuta anche come retina o rete di maiale, per via dell’aspetto retato: si tratta della sottile membrana che riveste la parte esterna dello stomaco del maiale e che tiene insieme l’apparato intestinale.

Con questa frattaglia, appartenente anche questa al cosiddetto quinto quarto, si avvolge la striscia di fegato insieme ad una foglia di alloro e si ferma il tutto con un bastoncino di origano (un tempo gli stecchini non esistevano).

Si ripone il tutto in una padella rigorosamente di ferro, annaffiando ogni tanto con uno spuzzo di buon vino, così che il fegato cucinato resta morbidissimo, anche per merito dell’abbondante presenza del grasso dell’omento, fino a rosolarlo nella parte finale della cottura stessa.

Il tutto va servito caldo altrimenti si ha il coagulo del grasso.

Si conclude così la frittuliata, o pranzo della quadara: arance, mandarini e finocchio completano le numerose portate.

Dulcis in fundo arrivano i dolci fritti del periodo, in particolare turdilli e scalille e l’immancabile sanguinaccio, che si accompagnano ad un buon passito di zibibbo, malvasia e greco bianco.

Un grande applauso con dediche, brindisi e relativa ovazione è solitamente rivolto al cuciniere e mastu da caddara.

Il prosieguo un tempo era in musica, con fisarmonica, organetto e tarantelle, una grande allegria che coinvolgeva tutti grandi e piccini.

Ma erano altri tempi.

 

 

 

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